31/03/12

Intelligenza Artificiale Governativa


Maurizio Crozza ha fin da subito individuato, nelle sue imitazioni, la caratteristica principale del presidente del Consiglio: di essere un automa, in grado di simulare alcuni aspetti meccanici del pensiero, ma non i sentimenti di empatia e simpatia tipici degli umani: meno che mai, ovviamente, di provarli.
La sua ministra del Lavoro e delle Politiche Antisociali non è da meno, anche se la sua release al femminile conteneva agli inizi un bug, subito corretto, che le ha causato, alla sua prima simulazione pubblica, la perdita di liquido oculare (per rimanere all’imitazione di Crozza).
Entrambi i due automi governativi hanno in questi giorni confermato la loro natura meccanica, emettendo a Torino affermazioni sul mercato del lavoro che, se fossero uscite dalla bocca di qualche umano, sarebbero risultate agghiaccianti.
Monti ha spiegato, tanto suadentemente quanto può un robot, che la Fiat è sì ”sempre stata governativa”, come diceva Gianni Agnelli. E dunque ha sì sempre ricevuto ingenti sovvenzionamenti statali, all’insegna del motto ”i nostri guadagni sono privati, i nostri debiti pubblici”. Ma, ciò nonostante, non ha alcun obbligo di sentirsi in debito con la nazione. Anzi, ha non solo il diritto, ma addirittura il dovere, di andare a cercarsi altrove nuovi polli da spennare, visto che ormai noi di piume non ne abbiamo più.
Quanto alla Fornero, ha pure lei confermato che ”la Fiat non può fare ciò vuole”: da intendere, ovviamente, nel senso che il mercato non è affatto ”libero”, come i liberisti avevano proclamato fino a ieri, ma costringe i rapaci a comportamenti coatti. Quanto alla riforma del lavoro che sta preparando, la ministra ha concesso che l’accettazione del piano da parte delle parti sociali sarebbe ”un valore aggiunto”, ma non è comunque una necessità.
Persino il presidente della Repubblica, che pure è il primo responsabile della transizione da un governo di subumani a un governo di non-umani, ha dovuto ammettere che ”sarebbe grave” se si facesse un accordo contro i lavoratori e i loro rappresentanti. Ma anche lui ha inteso le sue apparentemente ovvie parole non nel senso che il governo dovrebbe presentare un piano accettabile, bensì che i sindacati dovrebbero ”far prevalere l’interesse generale su qualunque calcolo particolare”.
Che sia un ex-comunista a considerare ”calcolo particolare” le lotte sindacali, e ”interesse generale” quello dei mercati, è un segno dell’abisso nel quale siamo caduti, con la scusa della crisi economica. Da Rifondazione Comunista siamo passati alla Fondazione di Asimov, ma è ai romanzi di Philip Dick che dovremo ormai rivolgerci, per trovare descrizioni adeguate di un mondo che noi umani non potevamo immaginare, e meno che mai prevedere. (Piergiorgio Odifreddi)

30/03/12

Tutte le volte che Emilio



Troppo facile dire che dopo Silvio era scontato  venisse giù anche il simbolo dell’informazione codina e dissimulata. Troppo facile dire che a qualcuno il teatrino di Emilio Fede finirà per mancare, perché il giornalismo declinato in varietà l’ha inventato lui, e c’era spesso da ridere. Troppo facile, anche, rigirare il dito nelle debolezze dell’uomo, che l’uomo stesso ha sempre usato per ritagliarsi attorno in una cornice di furbo auto-paternalismo.
Troppo facile dire delle meteorite e delle bandierine, dei Lele Mora e dei comunisti cattivi, della sottocultura che il Tg4 ha sistematicamente, pazientemente, colpevolmente inoculato nei suoi (affezionati, va detto) telespettatori.
Troppo facile dire che aveva fatto nel giornalismo televisivo quello che Berlusconi ha fatto in politica: populismo nei contenuti e personalismo nelle forme. E troppo facile, infine, dire che come in ogni autentico (e interessato) amor fou l’amato era diventato per il nostro prima proiezione e poi definitiva mimesi magica. 
Meno facile, invece, è capire ciò che resterà tra un po’ di tempo di un personaggio che è stato odiato ma anche amato, e far finta di non saperlo significa non sapere che Italia è stata ed è ancora quella in cui viviamo.
Anche in questo caso, vale quel che vale per l’amato Silvio. Che alla lunga rischia di essere ricordato per tutte le volte che ci ha fatto ridere, magari giocando con la propria stessa ridicolaggine. E non per tutte le volte che ci ha fatto piangere, e indignare. (Marco Bracconi)

29/03/12

Misure Straordinarie

Su Facebook furoreggia la candidatura del pornodivo Rocco Siffredi a sindaco di Palermo, «perché la nostra città ha bisogno di misure straordinarie», con tanto di slogan allusivi: «In basso al centro». Una goliardata. O magari no e fra una settimana il vero Siffredi annuncerà che Palermo è il Paese che ama e scenderà in campo senza neanche scendere dal letto. In politica ogni vuoto va riempito e, dopo un inverno di penitenza, a primavera i loden finiscono nel ripostiglio mentre escono dalla naftalina gli ormoni.

Eppure non è difficile scorgere in questa scemenza il segno di un malessere abbastanza sottovalutato, che riassumerei così: molti italiani non considererebbero la candidatura di Siffredi una scemenza. Non più di quanto lo sia quella di un politico di professione, intendo. Che i sopravvissuti di destra e sinistra continuino ad affacciarsi nei talk show con l'aria saccente dei padroncini in vacanza non fa che peggiorare le cose. Credono davvero di andare o tornare al governo nel 2013, come i nobili francesi del 1789 pensavano di bazzicare in eterno la corte di Versailles. Il guaio è che, nel loro patetico crepuscolo, rischiano di trascinare la politica. Che invece è cosa dura, seria, talvolta sporca, ma necessaria e persino emozionante quando è percorsa da una visione del futuro. Fra la goliardia e gli zombi si apre uno spiraglio che non potrà essere coperto a lungo dai tecnici: anziani e rispettabili signori di un tempo che fu. E' ora che il Terzo Stato delle tante associazioni in cui si declina la passione civile della società italiana prenda coscienza della propria missione e della propria forza. (Massimo Gramellini)

Non si Monti la testa


Forse è venuto il momento di dire al professor Mario Monti che s’è montato la testa. E la Fornero ancor di più. A furia di leggere sui giornali amici (cioè quasi tutti) che sono i salvatori della patria, i due hanno finito col crederci.

In realtà, in estrema e brutale sintesi, finora hanno recuperato miliardi sulla pelle dei pensionati e degli “esodati”, facendo dell’Italia il paese europeo dove si va in pensione più tardi; e altri contano di recuperarli sulla pelle dei lavoratori, dando mano libera alle aziende di cacciare chi vogliono, camuffando per licenziamenti economici anche quelli disciplinari e discriminatori. Quanto alle liberalizzazioni, a parte qualche caccolina sui taxi e le farmacie, non s’è visto nulla, mentre s’è visto parecchio a favore della banche.

Il vero “salva-Italia” è tutto mediatico, d’immagine: facce presentabili al posto degli impresentabili di prima. Il che non è poco. Ma è un fattore passeggero, visto che prima o poi, piaccia o no, i cittadini dovranno tornare a eleggere i loro rappresentanti. La prospettiva del ritorno dei politici, lo sappiamo bene, è agghiacciante. Ma questo progressivo disabituarsi degli italiani ai fondamentali della democrazia è pericoloso. Ed è qui che i “tecnici” ciurlano nel manico.

L’altro giorno arriva alla Camera il decreto “liberalizzazioni”, solita procedura d’urgenza “prendere o lasciare” modello Protezione civile: testo blindato dalla solita fiducia, la dodicesima in tre mesi. Problema: manca la copertura finanziaria, lo dice la Ragioneria dello Stato. Il rappresentante del governo, il noto gaffeur Polillo, s’inventa che “la copertura non può essere quantificata in anticipo”.

Fosse così, tutte le leggi passerebbero al buio, poi si vede. Ma non c’è nemmeno il tempo di discutere: si vota e basta a scatola chiusa. Fini protesta per “l’insensibilità del governo” (e meno male che c’è lui: Schifani vorrebbe solo decreti, soluzione che avrebbe almeno il pregio di liberarci del Senato e del suo presidente). Il Quirinale “si riserva” non si sa bene cosa. Del resto il Quirinale aveva già invitato i gruppi parlamentari a evitare fastidiosi emendamenti al decreto Milleproroghe. Ma a che serve allora il Parlamento, in una democrazia parlamentare? A ratificare senza fiatare i decreti del governo, fra l’altro blindati con la fiducia?

Ora arriva il ddl sul lavoro, cioè sull’articolo 18 e poco altro, tutti elogiano la mossa dialogante che ci ha fatto la grazia di evitare il solito decreto blindato. Ma subito Monti&Fornero fan sapere che non ammettono modifiche, sennò “il Paese non è pronto” e i salvatori della patria in missione per conto di Dio ci lasciano soli (“potremmo non restare”). Cioè: il disegno di legge è come fosse un decreto, calato dall’alto direttamente dallo Spirito Santo. E la formula “salvo intese”? Si riferisce alla maggioranza parlamentare che dovrebbe votarlo? No, a “intese fra governo e Quirinale”. E il Parlamento? Un optional.

Sappiamo benissimo che questo Parlamento fa schifo. Ma, per averne uno nuovo, più aderente ai gusti degli italiani, si doveva votare a novembre: invece Napolitano, Monti e i partiti retrostanti preferirono evitare. Dunque di che si lamentano? L’avete voluta la bicicletta? Pedalate. Monti si appella ai sondaggi, come unica fonte di legittimazione fra sé e il Colle (“se qualche segno di scarso gradimento c’è stato, è verso la politica, non verso il governo”). Ma allora dovrebbero valere sempre, anche quando non fanno comodo: oltre il 60% degli italiani è contro la “riforma” dell’art. 18 e, a causa di quella, il governo è sceso in 20 giorni dal 62 al 44%. Magari, in quel 18% in meno, ci sono i 350 mila esodati che il governo ha lasciato senza lavoro e senza pensione: chi li rappresenta?

Non era stato proprio Monti, presentandosi al Senato il 17 novembre, a giurare che “non verranno modificati i rapporti di lavoro regolari e stabiliti in essere”? Ora dice che “sulla riforma non accetto incursioni in Parlamento”, ma quelle che chiama “incursioni” sono l’abc della democrazia parlamentare. Chi glielo dice?  (Marco Travaglio)

28/03/12

T-shit



Corbellerie e menzogne, Monti come Marchionne
Chissà perché questi potenti miliardari, amici di banchieri e poteri forti (o meglio forti essi stessi), non hanno mai pudore nel mostrare tanta arroganza. Monti da Seul ha lanciato il suo editto, come ormai è prassi per i Presidenti del Consiglio procedere ogni volta che si trovano all’estero dinanzi a microfoni e telecamere: “o il Paese è pronto e si adegua oppure vado via”. Cos’è un ricatto, una minaccia? Cos’è, prof. Monti? Lasci perdere lo spread, lasci perdere gli investitori. Parli invece al popolo italiano. Cosa le fa credere che lei sia davvero considerato il salvatore della patria, se non per i meri e bruti rapporti di forza politici e la copertura del Quirinale? Cosa le fa credere che gli italiani accettino ancora come sincere le sue ricette?

Questa stucchevole, odiosa minaccia, per quanto sobriamente pronunciata, ricorda straordinariamente il mantra con cui Marchionne ha massacrato i lavoratori Fiat e la pazienza degli italiani: “la Fiat lascerà l’Italia se non si fa come decido io”.

Dalle prossime ore, gli italiani proveranno dolorosamente la stangata di primavera, cioè gli effetti delle manovre del governo Monti e dei suoi tecnici, e ciò che più infastidisce, oltre alle insostenibili e inique misure per i ceti medi e i lavoratori, è l’insipienza ormai ricorrente e conclamata di questo governo di prof. e tecnici. Basta citare qualche esempio.

1) Un ministro del lavoro che in conferenza stampa afferma con orgoglio che la sua riforma estenderà il principio di nullità del licenziamento discriminatorio anche alle imprese con meno di 15 dipendenti o è in malafede o ignora l’essenziale disciplina vigente in materia da oltre 15 anni. In entrambi i casi, dinanzi a una simile ed eclatante dimostrazione di malafede o ignoranza, è lecito chiedersi quali siano i presupposti per i quali la signora Fornero resti ineffabile al suo posto.

2) Un governo che per far cassa giunge, o non si avvede di giungere, a considerare come seconda casa il ricovero negli ospizi per anziani applicando così l’innalzamento dell’Imu, mi provoca un qualche imbarazzo;

3) sempre in materia di Imu, un governo, il cui capo assicura di aver distribuito equamente i sacrifici, elabora invece un meccanismo per cui l’imposta colpirà maggiormente chi ha redditi meno elevati, mi provoca tali moti di ripugnanza che decine di confezioni di malox non attenuerebbero;

4) un governo che continua, insieme alla Bce di Mario Draghi, a far regali a banche e finanzieri come il ripristino delle commissioni per i prestiti, è fonte non della lotta, ma dell’odio di classe.

In tutti questi casi, se devo essere costretto dal più falso e insolente sistema di informazione esistente a considerare tale governo come il governo dei prof. e dei tecnici, beh, francamente, mi sia concessa almeno la presunzione di sentirmi, essendo anch’io un prof. (o un tecnico, come vorrebbe la propaganda di regime), un po’ Pico della Mirandola.

E dunque se Monti vorrà rendere concreta la minaccia e andar via davvero, credo che non piangerà proprio nessuno (a parte la Fornero): certamente non i lavoratori, non i pensionati, non gli studenti e neppure gli insegnanti, non i precari o i disoccupati. Nessuno, proprio nessuno… o forse sì, qualcuno sì. Piangerà! Piangerà un vecchio. Quel vecchio che sull’ermo colle risiede (ancor per poco!), e che sempre più vecchio e solo perderà il suo amato prof., accorgendosi giorno dopo giorno di non essere neppure amato dal suo popolo. (Orazio Licandro - Il Fatto Quotidiano)

23/03/12

Love Burns


La buca del delatore


Per mettere un freno alla corruzione pubblica che ha già spolpato la Grecia, il governo italiano intende introdurre l'arma della delazione. La legge allo studio funziona così. Il dipendente onesto si accorge che il vicino di scrivania prende una mazzetta, prepara una denuncia circostanziata e la consegna all'ufficio apposito della Prefettura, ricevendo in cambio la garanzia dell'anonimato e di una percentuale sostanziosa sui soldi recuperati dallo Stato. Una meraviglia. A Losanna, naturalmente. Ma nella penisola bagnata da quattro mari e da troppi furbi le cose potrebbero andare in modo diverso. Il dipendente invidioso del collega, o arrabbiato col medesimo per questioni di carriera, di sesso, di tifo, di precedenza nell'accesso al parcheggio interno, confeziona una bella «macchinetta del fango» e la deposita sul tavolo di un solerte funzionario che gli garantisce l'anonimato, anzi glielo giura sui suoi figli, e subito dopo telefona al denunciato per spifferare il nome del delatore. Perché Alfano ha ragione quando dice che le leggi vanno scritte per le persone perbene. Ma sono poi le persone «permale» a utilizzarle con la massima perspicacia per ribaltarne il senso a proprio vantaggio.

Non fraintendetemi: al punto in cui siamo, la delazione è comunque meglio dell'omertà. Ma non contrabbandiamola per progresso civile. E' una medicina orribile che ci tocca assumere per non morire di mazzette. Consapevoli dei suoi effetti collaterali: allenta il senso di comunità e ripristina la legge della giungla. Tutti contro tutti, e chi non sparla è perduto. (Massimo Gramellini)

22/03/12

Ne valeva la pena?


Il presidente Napolitano spiega ogni giorno quanto è buona e necessaria la riforma del mercato del lavoro presentata dal governo. Qualche domanda però è lecita. Davvero svuotare l’articolo 18 è necessario per far ripartire la crescita e rassicurare i mercati? Sembra di no: gli economisti non sono riusciti a dimostrare che le imprese italiane restano nane per non superare la soglia dei 15 dipendenti che fa scattare l’articolo 18, gli investitori stranieri sono più spaventati dalla camorra, dalla mafia, dalla burocrazia e dalla politica più che dai giudici del lavoro, l’aumento di produttività dovuto al timore del licenziamento difficilmente compenserà anni di investimenti troppo bassi da parte delle imprese. I mercati non sembrano folgorati: ieri lo spread è salito da 287 a 302 punti.
Possiamo almeno dire che è una riforma equa, che toglie ai vecchi per dare ai giovani, distribuendo tra generazioni il peso della crisi? In parte. È vero che finora l’insofferenza delle imprese per la rigidità del mercato del lavoro italiano è stata scaricata sui precari. E la riforma del governo Monti, va sottolineato, introduce novità rilevanti a difesa dei lavoratori più fragili: basta con le false partite Iva, contratti precari più costosi per le aziende, spinge verso il canale dell’apprendistato che dovrebbe evitare l’eterna reiterazione dei contrattini a progetto.

Però c’è il contesto: la riforma delle pensioni condanna le imprese a tenere i lavoratori anziani, demotivati e poco produttivi, fino a 67 anni. Facilitando i licenziamenti economici si fornisce l’incentivo a liberarsene per sostituirli con altri, più giovani e più economici. I cinquantenni di oggi rischiano quindi di trovarsi senza lavoro, senza pensione e con pochi ammortizzatori sociali, “esodati”, come quelli (oltre 200 mila) travolti dalla riforma Fornero per aiutare i quali il governo non riesce a trovare le risorse. D’accordo, i cinquantenni di oggi hanno avuto una vita più facile di quella dei loro figli. Ma sostituire un’emergenza sociale con un’altra non sarebbe un gran risultato.

Poi c’è la politica. La prova di forza di Monti, con la Cgil pronta allo sciopero generale, serve a compattare la maggioranza al centro, come auspica Napolitano? Per ora l’unico risultato è che l’asse Pdl-Udc è più forte, ma il Pd è traumatizzato, umiliato. A forza di isolare gli estremi il governo rischia di trovarsi con una base risicata. E forse a quel punto anche Monti dovrà chiedersi: ne valeva la pena? (Stefano Lepri - Il Fatto Quotidiano)

21/03/12

Devil Inside


La riforma senza la Cgil

Che riforma è, quella che oggi il governo ha praticamente definito? Sappiamo che tutti convergono su pratcamente tutto, tranne la Cgil che ha detto no alle modifiche previste all'articolo 18. Vedremo se poi l'ipotesi di riforma diventerà realtà e come. Si è visto nel caso del decreto sulle Liberalizzazioni che nei meandri delle Camere, i provvedimenti del governo si annacquano via via. La riforma a nessuno può piacere in toto. Ci sono riserve tra le aziende, tra i partiti, tra i sindacati, tra lavoratori e imprenditori, tra analisti e studiosi della materia. Certamente stare fermi non sarebbe stata la cosa migliore da fare, vedremo dopo aver esaminato i dettagli se è un passo avanti o indietro. Una cosa però, il governo Monti l'ha già ottenuta. Il premier ha detto che la concertazione e le trattative non possono essere infinite: Si discute fino a un certo punto e poi si decide. Il testo poi va sottoposto all'esame del Parlamento vero e unico interlocutore. Ecco, aver messo fine all'egemonia sull'ultima parola dei sindacati in materia di lavoro è già, nel suo piccolo, una rivoluzione. Vedremo se avrà conseguenze positive o trascinerà nel marasma il Paese. (marco.castelnuovo@lastampa.it)

19/03/12

Alla festa è mancato il futuro


Siamo più o meno italiani di un anno fa? Siamo più poveri, più arrabbiati, più disorientati. Ma forse, e con qualche sorpresa, anche più italiani. Non era affatto scontato, il 17 marzo 2011. La ricorrenza dei Centocinquanta planò su un Paese distratto e cinico, ripiegato nel suo «particulare» e poco propenso a farsi sedurre dal fascino retorico della Patria. L'anniversario pareva eccitare solo gli animi dei faziosi, che ne trassero spunto per riaprire vecchie e mai chiuse ferite (in Italia i cerotti della memoria sono di pessima fattura e si staccano al primo venticello bilioso). Cavurriani contro garibaldini, borbonici contro sabaudi, secessionisti padani e autonomisti meridionali uniti nella lotta per sfasciare quel poco di coesione nazionale che in un secolo e mezzo eravamo riusciti a costruire, nonostante una dittatura, una guerra civile, le stragi di Stato, il terrorismo, la mafia e le mani leste dei tangentocrati.
Le premesse per un autogol della Storia c’erano tutte e invece, incredibilmente, i cittadini del Paese meno nazionalista del mondo hanno partecipato alla festa.

Più al Nord che al Sud e più a Torino che altrove. Ma ovunque si è registrata un'adesione superiore alle attese, un senso di appartenenza che ha stupito per primi coloro che lo manifestavano. Come se le trombe della crisi economica avessero chiamato a raccolta le paure e le incertezze di tutti, per dar loro riparo all'ombra di una comunità più ampia della famiglia e del campanile. In fondo, persino quel litigare viscerale e ossessivo sui nodi irrisolti della propria storia era un modo isterico, quindi molto italiano, di sentirsene parte.

Il sentimento nazionale è cresciuto quasi per emulazione: la bandiera al balcone, l'inno cantato a squarciagola. Sembrava un gioco, ma è diventato una cosa seria, come tutte le cose che gli italiani cominciano per gioco. Ha unito un po' tutti, da destra a sinistra. Tranne la Lega, che aveva scommesso sul fallimento delle celebrazioni (oltre che sul crollo dell'euro) per risollevare la bandiera della secessione e si è ritrovata un boomerang tricolore sulla testa. Infatti, contro ogni previsione, gli italiani non si vergognavano di ricordare la Patria. Naturalmente la onoravano alla loro maniera: riaprendo gli album di famiglia per scovare brandelli di appartenenza nel trisnonno brigante o nel nonno partigiano. Insieme con l'interesse per l'Italia cresceva l'attaccamento alle sue istituzioni, in particolare la presidenza della Repubblica. Nel Paese delle eterne curve, Napolitano diventava il Distinto Centrale, la zona dello stadio dove gli opposti schieramenti si fondono con più senso civico di quanto avvenga talvolta nella tribuna delle autorità.

Si era a questo punto quando lo spettro ancora fragile della italianità ritrovata è stato messo alla prova da un doppio trauma: il precipitare della recessione e l'incartarsi del berlusconismo. Pungolati dagli eventi, ci siamo dimenticati di consultare la memoria degli ultimi 150 anni: vi avremmo visto quel che in effetti è poi accaduto, e cioè che sull'orlo del precipizio questo Paese riesce sempre a fare un passo indietro. E non è mai un passo normale, da torre degli scacchi, ma una mossa estrosa. La mossa del cavallo. Quella che Napolitano ha escogitato nominando Monti senatore a vita e costruendo le premesse per un cambiamento su cui nessun esperto avrebbe scommesso un euro bucato.

Dalla bandana al loden, e dal bunga bunga allo spread, il passaggio è stato brusco ma perfettamente coerente con la nostra storia di giravolte alla ricerca perenne di quel giusto mezzo, plasmato nel buon senso più che nell'eroismo, in cui va infine sempre a placarsi l'insopprimibile «democristianità» dell'italiano medio. Da un giorno all'altro il teatro del Centocinquantenario ha cambiato cartellone, con i dossier economici che sostituivano le intercettazioni e i silenzi algidi degli esperti al posto delle «boutade» grottesche dei dilettanti. Si portava così a compimento il vero paradosso di questa festa: mentre il rispetto per le istituzioni si estendeva dal Presidente al governo (di cui veniva riconosciuta, accanto alla durezza, la serietà) e persino il senso dello Stato faceva timidamente capolino incarnandosi in un sentimento inedito di ostilità verso gli evasori fiscali, evaporava il credito residuo dei partiti politici, che dalla stragrande maggioranza degli italiani vengono ormai considerati, nei casi migliori, delle associazioni a scopo di lucro gestite da personaggi inefficienti e mediocri.

Se qualcosa è mancato in questa festa tricolore che oggi ammaina le sue bandiere, non è stato il presente e nemmeno il passato. E' stato il futuro. Non ne ha parlato nessuno, se non in termini vaghi e retorici. Dalla politica, «sollevata» da compiti di governo, ci saremmo aspettati almeno questo: che oltre ad autoimporsi una cura dimagrante per rientrare nei limiti della decenza, si sforzasse di offrire una visione sull'avvenire possibile del Paese. Invece la classe dirigente (?) non si è degnata di dirci come immagina l'Italia fra cinquant'anni: quel gigantesco parco-giochi cultural-ambientale che vorrebbe il mondo e noi ci ostiniamo a non essere, oppure qualcos'altro? Nel silenzio degli indecenti, come sempre la risposta verrà dagli italiani che non hanno potere ma istinto di sopravvivenza. E come sempre non sarà quella che ci si aspetta da loro, qualunque essa sia. (Massimo Gramellini)

Mo so' cozze!



Le ostriche del potere

C'è qualcosa di eccessivo, di sottilmente smodato, nel rapporto tra la classe dirigente italiana e la dimensione del denaro e del lusso che il denaro consente. È una sorta di incontinenza e di esibizionismo senza freno; di compulsività acquisitiva. Sembra che in questo Paese per banchieri e imprenditori, per alti burocrati, professionisti di grido e parlamentari, per chi insomma conta qualcosa, ogni retribuzione non sia mai abbastanza elevata, ogni privilegio e ogni prelibatezza non siano mai troppo esclusivi, ogni manifestazione di ricchezza mai troppo smaccata.

La classe politica fornisce gli esempi se non più clamorosi senz'altro più noti. Intercettazioni, cronache giornalistiche, atti giudiziari restituiscono l'immagine di un gruppo di persone spesso proprietarie di ville su remote spiagge oceaniche o di case con viste strepitose sui più bei centri storici della penisola, intente appena possono a trascorrere vacanze in costosissimi resort esotici, a consumare pranzi e cene in locali da nababbi. Al senatore Lusi capitava di ordinare al ristorante piatti di spaghetti con non so che cosa, del costo di appena 180 euro. Viene da chiedersi: «Era sempre solo? E ai suoi ospiti sembrava ovvio andare in un posto del genere?». Evidentemente sì. Certamente appariva ovvio al sindaco di Bari Emiliano (e nel capoluogo pugliese non solo a lui, a quel che sembra) ricevere come regalo un intero acquario commestibile. Ogni anno, con le scuse più inverosimili, decine di delegazioni di consiglieri comunali e regionali (quelli della Sicilia in testa, di regola) si regalano a spese dei contribuenti viaggi in prima classe nelle mete più lontane e negli alberghi più costosi.

Ma non sono certo solo i politici. Don Verzé e i suoi collaboratori trascorrevano piacevoli (e frequenti) periodi di relax in alberghi e località di gran classe messi naturalmente a carico dei bilanci di enti nati per tutt'altri scopi ma che si ritrovavano non si sa perché ad averne la proprietà. Di espedienti più o meno analoghi si servono migliaia di italiani ricchi per i quali lo yacht o l'aereo privato sembrano ormai diventati necessari come l'aria. Per qualunque medio industriale scendere in un hotel come minimo (come minimo) a 5 stelle è ormai un'abitudine irrinunciabile. Così come in hotel come minimo a 5 stelle, o in favolose ville su qualche lago, o a Capri, o a Santa Margherita, si svolgono i loro convegni. Mai, chessò, in una bella sala dell'«Umanitaria» o alle «Stelline», no. E se proprio deve essere un postaccio come Milano, almeno il «Four Seasons».

È tutta l'élite italiana che ha perduto il gusto aristocratico della sprezzatura che è il contrario dell'affettazione, il piacere e il senso dell'eleganza fondata sulla sobrietà. La famosa mela che il presidente Einaudi chiese durante una cena se qualcuno voleva dividere con lui, forse neppure compare più nei menu del Quirinale. Così come non ha trovato molti imitatori il supremo snobismo, vagamente venato di tirchieria, che portava il suo altrettanto famoso figlio editore a scovare sperdute osterie dal cibo squisito (a suo dire) ma economicissime.
La moda è lo specchio di questo tracollo. I giovani della haute lombarda di una volta, vestiti d'inverno con i loden e le alte scarpe di Vibram; i vecchi tweed inglesi, che un tempo indossavano con nonchalance i signori della buona borghesia napoletana, hanno fatto posto alla tetra eleganza acchittata degli attuali trenta-quarantenni in carriera, abbigliati rigorosamente in nero come bodyguard o necrofori.

Queste odierne esibizioni e possibilità, così vaste, di lusso ostentato, di superfluo, questa mancanza di misura, dicono molte cose dell'élite italiana. Ci dicono per esempio di un gran numero di redditi occulti, di guadagni privati protetti da leggi compiacenti, e naturalmente di evasione e più ancora di elusione fiscale su grande scala, che la caratterizzano. Ci dicono, ancora, di una sua complessiva, forte diversità rispetto agli altri grandi Paesi europei con cui amiamo confrontarci. Nei quali, tanto per dire, almeno un buon numero di parlamentari italiani sarebbe stata già da tempo, per una ragione o per l'altra, costretta a furor di popolo a dimettersi; dove difficilmente sarebbero tollerati i cumuli di incarichi e di prebende con cui in Italia alti magistrati e grand commis si permettono tenori di vita elevatissimi; dove i rapporti incestuosi tra molti di loro e il mondo degli affari privati (conditi spesso e volentieri di cene, viaggi e vacanze insieme) sarebbero oggetto di censure e di provvedimenti severi.
Ma il rapporto della classe dirigente italiana con il denaro e con il lusso forse parla di qualcosa di più profondo. La sfrontata pervicacia con cui troppe volte essa esibisce entrambi sembra rispondere più che altro, infatti, al bisogno di occultare un intimo senso d'insicurezza. Quasi che sentendosi inadeguata al proprio ruolo, ai contenuti reali e impegnativi di questo, l'élite italiana pensasse di mostrarsi superiore nel modo più facile che le è possibile: con i soldi. Ma così agi e guadagni, invece di rappresentare in qualche modo una conferma della sua superiorità, alla fine sono solo la riconferma della sua inadeguatezza. Della sua lontananza dal Paese reale, della sua inettitudine a capire il bisogno che oggi esso esprime di essenzialità e di misura.

16/03/12

I Tre dell’Ave Mario




A furia di citare la foto di Vasto con Bersani, Di Pietro e Vendola per dire che gli intrusi erano Di Pietro e Vendola, è stata scartata a priori l’ipotesi che dei tre quello sbagliato fosse Bersani. Ipotesi che assume una certa pregnanza alla vista della foto di Casta, twittata da un gaio Piercasinando durante l’inutile vertice con Monti.

La foto di gruppo lo ritrae in compagnia del resto della Trimurti, anzi della Trimorti a giudicare dal consenso di cui godono i rispettivi partiti: l’implume Angelino Jolie e il solito Bersani, che sta diventando un po’ come Zelig e Forrest Gump: fa capolino in tutte le foto (anche in quelle dei matrimoni). Eccoli lì, sorridenti e giulivi davanti al fotografo, Casini, Alfano e Bersani, ma anche Casano, Bersini e Alfani, ma anche Alfini, Bersano e Casani. La Trimorti è uscita finalmente dalla clandestinità, dopo tre mesi di incontri clandestini in tunnel, catacombe e suburre umidicce e infestate da cimici e pantegane, e ha trovato il coraggio di fare outing sul loro ménage à trois: ebbene sì, i tre dell’Ave Mario si amano e rivendicano i loro diritti di trojka di fatto.

Un tempo la politica si faceva nelle piazze, poi traslocò in televisione. Ora invece va avanti a colpi di foto e photoshop. Da quando i partiti sono appunto partiti senza più dare notizie di sé, per avvertire i loro cari di esser ancora vivi i presunti leader postano ogni tanto un autoscatto. Prossimamente manderanno una cartolina da Venezia. O magari da San Vittore, a giudicare dall’imperversare degli scandali e delle inchieste un po ’ in tutta Italia, su tutti i partiti, vecchi e nuovi, di destra di centro e di sinistra. Ormai parlare di indagini è riduttivo: questi sono rastrellamenti.

Li stanno andando a prendere l’uno dopo l’altro. Presto si esauriranno anche le riserve di manette ed esploderanno i cellulari (intesi come mezzi di locomozione): ci vorrà l’accalappiacani. In attesa della prossima retata, i partiti si difendono come possono. Più gli elettori si allontanano, più i politici si avvicinano, in quel Partito Unico Nazionale (Pun) che ha rinunciato pure agli ultimi pudori. Più che un inciucione, un partouze che compravende tutto: giustizia, Rai, frequenze, welfare, legge elettorale, Costituzione. Basta grattare un po’ la foto di Casta per scoprire che è tutto finto. Per evitare il linciaggio dagli eventuali elettori rimasti, Bersani giura che il Pd non parteciperà alla spartizione della Rai, ma in realtà è già d’accordo con gli altri due, dietro il trompe l’œil delle “personalità indipendenti” (tutti ottuagenari fossili da Jurassic Park). Alfano dà il via libera alla legge anticorruzione, in realtà già sa che la Convenzione di Strasburgo verrà svuotata, mentre le sole leggi sulla giustizia che passeranno sono: l’ammazza-giudici sulla responsabilità civile diretta e personale (unica al mondo); l’ammazza-intercettazioni e imbavaglia-stampa modello Mastella; e l’ammazza-concussione per salvare B. anche dal processo Ruby con la gentile collaborazione del Pd che l’ha addirittura proposta.

Intanto in Cassazione si provvede a tener buone le Procure di Palermo e Caltanissetta, così imparano a indagare su stragi e politica: ma non l’hanno ancora capito che le trattative Stato-mafia si chiamano “grandi intese”? Sulla legge elettorale i partiti dicono che manca ancora un quid, ma in realtà sono già d’accordo per eliminare con sbarramenti e altre lupare bianche i pochi partiti e movimenti non allineati. La Camusso dice che l’accordo sull’articolo 18 ancora non va bene, in realtà lo sanno tutti che la Cgil è già d’accordo da un bel po’, perché così vuole il Pd, e il Pd è d’accordo perché così vuole il Quirinale. E, se qualcuno protesta, è pronta la scusa: “Ce lo chiede l’Europa”. Da questo vortice di vertici, da questo partouze a base di foto, cartoline, finzioni, tavoli e teatrini, resta fuori un piccolo dettaglio: gli elettori.

Ma che saranno mai 45 milioni di italiani. Basta rafforzare le scorte dei politici. E non perché siano minacciati dai terroristi o dai mafiosi (ma quando mai): è che rischiano di incontrare un elettore.
(Marco Travaglio)

Dangerous Method


Concordia


14/03/12

Medieval Fantasy


Angelino alla moviola

"Melina", nel gergo calcistico del tempo che fu. O"catenaccio", se si sta a tempi più recenti (ma strategie antiche). "Fare flanella", anche, o il più tradizionale "perdere tempo". Angelino Alfano, l’uomo senza quid, come lo chiama il suo principale, ha cambiato idea. Una settimana fa disertò un vertice del governo perché non riteneva conveniente parlare di Rai e giustizia. Domani, invece, allo stesso vertice ci andrà, ma sottolineando che di Rai e giustizia parlerà «solo se ci sarà tempo». Insomma, due temini da niente che finiscono nel reparto "varie ed eventuali", in fondo alla lista, forse, vedremo, se non si fa l’ora della  merenda. Pur di non parlare di Rai, dove il suo partitino ormai sotto il venti per cento detiene un potere soverchiante, Angelino Alfano è disposto persino a parlare di lavoro. E in effetti fa il suo lavoro: pur di difendere le posizioni in Rai del suo principale, primo concorrente della Rai, sarebbe disposto anche a vestirsi da operaio, forse persino a iscriversi alla Fiom. Fa una certa tenerezza questo Angelino lavoratore, accanito difensore dei salariati, strenuo baluardo delle classi subalterne. La stessa tenerezza, a pensarci, che fanno quei difensori poco dotati (senza quid, per intenderci) che pur di guadagnare minuti buttano la palla in tribuna, fingono infortuni semimortali, si rotolano per terra sperando che l’arbitro non conceda il recupero. Da immaginarsi la telecronaca: Angelino che traccheggia, che temporeggia, che allunga le frasi, che pronuncia lentamente le parole, pur di arrivare alla fine dell’incontro senza che ci sia tempo di parlare di Rai e di giustizia. Angelino al ralenty, Angelino alla moviola, che guarda con angoscia la panchina, che chiede: quantomanca? Chissà se alla fine, ottenuto il pareggio sperato, alzerà le braccia al cielo e abbraccerà i compagni di squadra: visto? Abbiamo parlato così tanto di lavoro che purtroppo non abbiamo fatto in tempo a parlare di Rai. E forse non ha tutti i torti: in effetti quello dell’uomo senza quid è un lavoro usurante. (Alessandro Robecchi - Il Manifesto)

11/03/12

Alfano sa chi è Marcellino?

 
Quando Marcello Dell’Utri trafficava fra Milano e Palermo incontrando mafiosi che attraversavano numerose generazioni, Angelino Alfano andava ancora al liceo. A 42 anni, però, avrà imparato la carriera del senatore Dell’Utri?

Il segretario del Pdl ha commentato così la sentenza sull’amico Marcello: “Tieni duro e continua a difenderti con grande orgoglio e straordinaria dignità come hai fatto in questi anni”.  A parte la scemenze che dice. Oggi scopriamo qualcosa che le più interessanti intercettazioni non ci potranno mai rivelare, cioè che per paradosso – spero consentito – Dell’Utri è più sincero di Alfano. Perché il senatore ha sempre spiegato che scalda la poltrona al Senato soltanto per non andare in galera.

E Alfano, cui manca il quid e pure il resto, incoraggia Marcellino a difendersi “con grande orgoglio e straordinaria dignità”. (Carlo Tecce - Il Fatto Quotidiano)